Come è nata l’acquacotta

Nei dintorni di Capalbio i butteri erano al lavoro fin dalle prime luci dell’alba. La giornata sarebbe stata, come al solito, lunga e faticosa. Un bel daffare stare dietro alle bestie brade delle macche circostanti: controllarle, spostarle, contarle, marchiarle… Tutto il giorno a cavallo, e la sera la schiena ridotta a pezzi. Ma c’era anche chi non se la prendeva più di tanto.

Quella mattina Ultimo era arrivato in ritardo. E non era ormai una novità. I compagni se lo videro arrivare trotterellando, senza fretta, come chi non è ancora ben sveglio – o del tutto sveglio non lo sarà mai – e lo accolsero con le solite battutacce: Ultimo! Sei arrivato finalmente! Eravamo preoccupati. Lo sai che se manchi te noi non sappiamo dove mettere le mani! E giù risate. Poveruomo, non gli era risparmiato niente, né in casa né fuori. Ma che colpa aveva se la natura era stata così poco magnanima con lui? Si portava addosso quel nome come un marchio: Ultimo. Di nome e di fatto. Nato dopo un numero imprecisato di fratelli e sorelle, pareva che per lui non fosse rimasta alcuna dote disponibile. Lento, goffo, mediocre in tutto. Madre natura aveva lesinato anche nella statura. Piccolo, un omino ridicolo, specialmente quando montava quei grossi e robusti cavalli maremmani. Ma fosse stato solo questo! Nel lavoro era impacciato in tutti i movimenti. Quando doveva aprire i cancelli dei mandrioli, ad esempio, c’era da aspettarsi di vederlo rotolare dietro il lungo bastone. Con il lazo, poi, non sarebbe riuscito ad afferrare un ciocco, figuriamoci quelle bestie brade. Il lazo, lui, lo portava appeso alla sella più come ornamento che come attrezzo da lavoro. Era perciò il bersaglio preferito delle frecciate e degli sberleffi di quei nostrani cow-boy.

Anche in famiglia godeva di poca considerazione. Era chiaro, bastava vedere quello che la moglie gli preparava per il pranzo. È vero che in Maremma quelli erano tempi di miseria nera per tutti e che anche gli altri butteri si levavano a fatica la fame, ma per lui nella bisaccia non c’era nient’altro che un pezzo di pane e un fiasco d’acqua. Sempre. E anche per questo era diventato motivo di scherno: Ultimo!, gli gridavano il coro a mezzogiorno, Quante salsicce oggi? E giù grasse risate. Lui, poveretto, si metteva da una parte, tutto solo, accendeva il fuoco, inzuppava il pane nella pignatta d’acqua bollente e mangiava con l’appetito di un gigante. Una mattina, però, accadde che, con la solita razione, si trovasse nel tascapane anche una grossa cipolla. L’uomo rimase un po’ perplesso. Pensò e ripensò. Una cipolla… che farne? Non gli parve il caso di mangiarla cruda, meglio cuocerla. Questa volta nel pentolino con l’acqua affettò la cipolla, buttò dentro un po’ di cicoria raccolta intorno e fece bollire a lungo quell’intruglio. Alla fine ci inzuppò il pane tagliato a fette sottili. Intanto nell’aria si era diffuso un odore di buona cucina da far venire l’acquolina in bocca. I butteri s’avvicinarono stupiti: Ultimo! Che mangi oggi? E lui: Acqua e… Acquacotta! gli venne da dire, e soddisfatto offrì ai compagni un assaggio di quella zuppa. Buona! Buona davvero! Sentenziarono, e Ultimo si trovò il pentolino vuoto.

Quel giorno nacque uno dei piatti più caratteristici della nostra terra. Era solo la parente povera dell’odierna acquacotta che, arricchita di pochi altri ingredienti, è sicuramente più gustosa e saporita. Ma anche l’acquacotta moderna ha per base acqua, cipolla e verdure, e il gusto un po’ forte e ruspante di una cucina che non è nata per palati troppo raffinati.

Dal Libro 100 leggende di Maremma di Lucio Niccolai

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